Intervista alle donne che cambiano il mondo. Cristina Cattaneo e Gabriella Scarlatti

Di Eleonora Prinelli e Ada Andrea Baldovin

CRISTINA CATTANEO

Cristina Cattaneo, originaria del Monferrato, è docente di medicina legale, antropologa forense, paleontologa e direttrice del LABANOF, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano. È anche l’anatomopatologa più conosciuta d’Italia. A lei sono state assegnate le autopsie per i casi giudiziari più controversi, da Yara Gambirasio a David Rossi, e non solo. Ma per Cristina Cattaneo tutte le morti hanno pari dignità e valore, motivo per cui si è distinta nell’ultimo decennio per il suo enorme impegno nell’identificazione dei naufraghi del Mediterraneo. Il suo ultimo libro, Naufraghi senza volto, racconta proprio di come il riconoscimento dei morti sia essenziale specialmente per la salute mentale dei vivi, siano essi in Italia, o dall’altra parte del Mediterraneo. Il Bullone ha avuto il privilegio di incontrarla lo scorso inverno e di passare con lei un intero pomeriggio fatto di conoscenza, approfondimento ed emozioni fortissime. 

Nella foto Cristina Cattaneo

Gli uomini governano, ma le donne cambiano il mondo. Lei è d’accordo?

«Mah, credo che chi cambia il mondo – in meglio, ovviamente, per come intendiamo noi il meglio – siano le persone “selfless” e appassionate. Penso che credere in una causa o in una missione, automaticamente ti fa diventare così. Non fai le cose per guadagno personale, ma spingi anche a costo di rimetterci, finché la causa non va avanti. A volte è necessario, sempre con intelligenza, mantenere un certo livello di testardaggine… Tutto questo, credo, indipendentemente dal genere di appartenenza, anche se trovo che le donne spesso hanno maggiore slancio e costanza (ma ci sono anche uomini così, anche se in numero minore)».

Abbiamo degli esempi di donne, come lei, per esempio, che con la loro attività modificano i pensieri, muovono le comunità. Cosa la spinge a farlo?

«Mi lusinga molto quello che dite, anche se non mi vedo proprio così. Quello che mi muove comunque è davvero la convinzione. Se sei convinta ti muovi automaticamente e magari qualcuno ti ascolta perché fai parte di un’istituzione come l’università. Io credo molto nel fatto che la mia disciplina possa aiutare a “fare giustizia”, a prevenire la violazione dei diritti, a proteggere i più deboli (dai bambini agli animali) e a leggere il passato. Credo anche che questo non si capisca ancora e allora la passione e la determinazione si acuiscono di più. Credo sia la spinta che ti dà l’innamoramento della disciplina, più quello della missione che hai sposato. È intellettuale, ma anche molto viscerale».

Donne che vanno oltre il proprio lavoro con il coraggio di cambiare. Secondo lei perché rimangono fatti isolati? Perché queste donne, lei e le altre, non hanno più spazio nella gestione della cosa pubblica? 

«Forse perché siamo troppo impegnate nella causa per diventare politici (cosa che bisogna fare se si vuole gestire la cosa pubblica). Finché la cosa pubblica non chiamerà a sé veri consulenti tecnici su questa materia, non per fare politica, ma per educare i politici, allora non ne faremo parte».

GABRIELLA SCARLATTI

Di Ada Andrea Baldovin

Gabriella Scarlatti inizia la sua carriera come medico pediatra nel reparto di malattie infettive della clinica De Marchi, alla fine degli anni 80, occupandosi dei bambini sieropositivi nati da madri che avevano contratto a loro volta l’infezione. Durante uno studio internazionale per la prevenzione della trasmissione del virus HIV, durato dal 1990 al 1994, le viene offerta la possibilità di fare esperienza per un anno in un laboratorio di ricerca. L’esperienza non si limita però ad un anno. Oggi direttrice del gruppo di ricerca Viral Evolution and Trasmission Unitdell’Ospedale San Raffaele di Milano, lavora per cercare nuove cure e metodi preventivi per combattere il virus HIV, ma non solo; fondamentale è il suo lavoro di formatrice nei Paesi più a rischio, dove i pazienti non hanno accesso a un sistema che li aiuti. Il suo compito oggi è di trovare soluzioni utili lì dove è impossibile trovarne. «Potrei limitarmi a fare ricerca, ma è una malattia che ti porta a confrontarti inevitabilmente con tutto il resto».

Alcuni grandi saggi dicono che fra 50 anni il mondo verrà gestito dalle donne, perché gli uominigovernano, ma le donne cambiano il mondo. Lei è d’accordo?

«Credo che le donne governino già da tanto tempo e quotidianamente cambiano il mondo. Quello che deve cambiare è la visibilità. Se escludiamo quelle (troppe) società in cui le donne non hanno diritto di parola, si fa fatica a pensare che, nonostante rappresentiamo almeno il 50% della popolazione, ci sia un numero così limitato di donne che ha uno spazio riconosciuto dalla società. Le eccellenze ci sono eccome, in tutti i campi». 

Nella foto Gabriella Scarlatti

Abbiamo degli esempi di donne, come lei, che con la loro attività modificano i pensieri, muovono le comunità. Cosa la spinge a farlo? 

«Ho avuto l’opportunità di poter scegliere quello che volevo studiare e di seguire la mia aspirazione di diventare medico, pediatra e poi ricercatore. Mi ha spinto la convinzione di poter contribuire nel debellare una malattia come HIV/AIDS. Non credo proprio di avere mosso le comunità, però nel mio lavoro ho potuto imparare, condividere e insegnare, grazie alle tante persone che ho incontrato in giro per il mondo. Lavorare in squadra con persone con cui si condivide l’obiettivo mi ha arricchito e dato una buona dose di entusiasmo… necessari anche per superare i momenti di sconforto». 

Donne che vanno oltre il proprio lavoro con il coraggio di cambiare. Secondo lei perché rimangono fatti isolati? Perché queste donne, lei e le altre, non hanno più spazio nella gestione della cosa pubblica? 

«Facciamo fatica a farlo riconoscere e rispettare. Direi che le donne agiscono secondo un modello di partnership e di condivisione, con processi decisionali basati più sul consenso, mentre gli uomini ricorrono più a un modello di comando. Quest’ultimo è intrinsecamente più ingombrante. Sta a noi tutti cercare di valorizzare modelli alternativi di governo. Credo che i giovani lo abbiano già capito. Cinquant’anni, due generazioni? Spero prima!».